Ingiustizia è fatta: quando la lunghezza del processo penalizza chi ha ragione.

Ingiustizia è fatta: quando la lunghezza del processo penalizza chi ha ragione.

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Il caso in esame è tanto semplice quanto comune: causa di appello riguardante la sentenza di divorzio che aveva attribuito alla ex moglie un assegno di 600 euro.

L’ex marito fa appello, lo vince e l’assegno viene cancellato, ma con efficacia non retroattiva.

La Cassazione, con l’allegata ordinanza del 22 giugno 2020, ha confermato la pronuncia del Giudice di merito sul punto.

Per l’effetto, la durata del processo viene fatta gravare sulla parte attrice, in contrasto con quanto previsto per qualsiasi diverso diritto di credito.

E’ vero che in materia di famiglia le valutazioni da fare sono anche altre, però è altrettanto vero che il povero ex marito non avrebbe potuto – nelle more del giudizio – rifiutarsi di pagare un assegno risultato come non dovuto senza commettere reato.

Quando il giudice accerta che quell’assegno non andava corrisposto, come fa a denegare al malcapitato il diritto a riavere i soldi indietro?

La giurisprudenza della Corte sul punto pare – essa si – davvero sessista, ispirata ad un sistema valoriale dove la moglie doveva essere per definizione la parte del debole del rapporto.

Tutti sappiamo che le cose non stanno più così, ma se ciò è vero dovremmo cominciare a qualificare gli ex coniugi come “attore” e “convenuto” e definire le questioni patrimoniali tra loro a prescindere dal genere del richiedente.

Questo a maggior ragione in un sistema dove le cause di appello possono durare molti anni, cosa che per fortuna non era accaduta nel caso di specie.

Avv. Sandro Campilongo

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