In tema di risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale, è stato recentemente affermato che il danno è risarcibile se viene provata l’effettività e la consistenza di tale relazione e questi parametri possono provarsi anche per presunzioni in riferimento a quanto ragionevolmente riferibile alla realtà dei rapporti di convivenza ed alla gravità delle ricadute della condotta. Ad affermarlo è la Cassazione con l’Ordinanza n. 12681 del 12 maggio 2021.
In particolare, per la Cassazione, “il danno non patrimoniale, consistente nella sofferenza morale patita dal prossimo congiunto di una persona lesa in modo non lieve dall’altrui illecito, può essere dimostrato con ricorso alla prova presuntiva ed in riferimento a quanto ragionevolmente riferibile alla realtà dei rapporti di convivenza ed alla gravità delle ricadute della condotta”.
Nel caso in esame gli eredi del de cuius evocavano in giudizio la Clinica ed il Ministero della Salute, per ottenere il risarcimento del danno conseguente alla morte della propria congiunta verificatasi a causa di una emotrasfusione cui era stata sottoposta.
All’esito del primo grado di giudizio, il Tribunale accoglieva la domanda, condannando i convenuti al risarcimento del danno da perdita del congiunto in favore degli eredi del de cuius a titolo di danno iure hereditatis, rigettando, tuttavia, la domanda di risarcimento iure proprio, perché ritenuta non provata.
Avverso tale decisione gli attori proponevano appello limitatamente al rigetto della domanda iure proprio rilevando che il pregiudizio poteva ritenersi provato in via presuntiva e liquidato equitativamente.
La Corte d’appello adita accoglieva totalmente il gravame proposto dagli originari attori accogliendo, pertanto, anche la domanda risarcitoria iure proprio avanzata dai congiunti della vittima di malasanità.
Avverso la decisione della Corte territoriale la Clinica proponeva ricorso per Cassazione, la quale, con un unico motivo di impugnazione, deduceva la violazione, ai sensi dell’articolo 360, n. 3 c.p.c, dell’articolo 2729 c.c. in tema di presunzioni semplici, erroneamente utilizzate per colmare l’omessa allegazione degli elementi costitutivi del danno e dell’articolo 2056 e 1226 c.c., in relazione alla valutazione equitativa del danno liquidato sulla base del semplice rapporto di parentela.
Secondo la ricorrente, la Corte d’Appello avrebbe errato nell’utilizzare il criterio della sussistenza del danno, in re ipsa, con conseguente automatica liquidazione in via equitativa. Nel fare ciò la Corte territoriale avrebbe violato il principio già affermato dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 907 del 2018) secondo cui il danno morale deve essere provato e non può essere considerato esistente in re ipsa, per cui la presunzione può essere utilizzata solo in presenza di una allegazione adeguata del fatto relativo agli elementi costitutivi del danno.
Conseguentemente, sostiene la Clinica, gli attori avrebbero dovuto dimostrare le caratteristiche dei rapporti eventualmente esistenti tra i familiari, mentre, non avrebbero specificato nulla riguardo all’intensità del legame familiare, alle modalità di estrinsecazione dello stesso, alla diversa incidenza del medesimo sui soggetti con età e sensibilità diverse, alla diversa capacità di reazione e sopportazione del trauma.
La Suprema Corte, tuttavia, ha ritenuto infondato suddetto motivo, rigettando totalmente il gravame proposto.
I giudici i Pazza Cavour hanno ritenuto, infatti, che la questione sollevata dalla ricorrente, attenendo alla natura giuridica del danno non patrimoniale (ed in particolare quello relativo alla perdita di un congiunto) ed al relativo regime probatorio, nell’ipotesi di pregiudizio non patrimoniale, il ricorso alla prova presuntiva assume particolare rilievo, in quanto relativo ad un bene immateriale e può costituire anche l’unica fonte di convincimento del giudice, pur essendo onere del danneggiato l’allegazione di tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata dei fatti noti, onde consentire di risalire al fatto ignoto (così definitivamente superandosi la concezione del danno in re ipsa, secondo la quale il danno costituirebbe una conseguenza imprescindibile della lesione, tale da rendere sufficiente la dimostrazione di quest’ultima affinché possa ritenersi sussistente il diritto al risarcimento).
Il danno da perdita del rapporto parentale è risarcibile, pertanto, se sia provata l’effettività e la consistenza di tale relazione e questi parametri possono provarsi anche per presunzioni in riferimento a quanto ragionevolmente riferibile alla realtà dei rapporti di convivenza ed alla gravità delle ricadute della condotta.
Il danno non patrimoniale – precisa la Corte – consistente nella sofferenza morale patita dal prossimo congiunto di una persona lesa in modo non lieve dall’altrui illecito, può essere dimostrato con ricorso alla prova presuntiva ed in riferimento a quanto ragionevolmente riferibile alla realtà dei rapporti di convivenza ed alla gravità delle ricadute della condotta (in senso conforme, Cass. Sez. 3 n. 2788 del 31/01/2019).
In conclusione, secondo gli Ermellini, la Corte territoriale aveva correttamente applicato i principi in tema di prova presuntiva riferita al danno morale, fondata sulla massima di esperienza per la quale, ad un certo tipo di lesione corrispondono, secondo l’id quod plerumque accidit, determinate menomazioni dinamico-relazionali, per così dire, ordinarie.
Il giudice di appello, infatti, prendendo le mosse dalla documentata esistenza di un rapporto stretto di parentela (gli attori erano, rispettivamente, coniuge e figli della de cuius), dal solo dato della convivenza, oltre che da quello dell’età del congiunto, aveva considerato dimostrato, sulla base di massime di esperienza, il danno per perdita del rapporto parentale, ritenendo presumibile e ragionevole una notevole sofferenza per la perdita di una persona cara, venuta meno in età ancora relativamente giovane.
Avv. Sonia Arena