Il contratto di cessione del quinto dello stipendio è una forma di finanziamento a tasso fisso concessa ai lavoratori dipendenti, pubblici e privati, in cui il soggetto tenuto al rimborso delle rate non è il richiedente ma il suo datore di lavoro – o l’istituto previdenziale nel caso di pensionati – e il relativo importo è trattenuto direttamente in busta paga – o dalla pensione – nel limite del quinto della retribuzione mensile.
Tale istituto è regolato dal D.P.R. n. 180 del 1950 (approvazione del testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti dalle pubbliche amministrazioni) e dal relativo regolamento attuativo, il D.P.R. n. 895 del 1950. Successivamente, le modifiche apportate dalla L. n. 311 del 2004 e L. n. 80 del 2005 (di conversione del D.L. n. 35 del 2005) al D.P.R. n. 180 del 1950 hanno comportato non solo l’ampliamento della durata del finanziamento e l’eliminazione dell’anzianità minima di servizio per ottenere il prestito, ma soprattutto la totale estensione al settore del lavoro privato – i rapporti riconducibili all’art. 409, n. 3, c.p.c. – delle disposizioni originariamente dettate per il lavoro pubblico. Tale ultimo principio, enunciato dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 685 del 2012, trova ulteriore conferma in un recentissimo arresto delle Sezioni unite (sent. Cass., S.U., n. 1545 del 2017).
Il detto Decreto n. 180, nel Titolo I dedicato alle disposizioni generali, all’art. 1 stabilisce: “Non possono essere sequestrati, pignorati o ceduti, salve le eccezioni stabilite nei seguenti articoli ed in altre disposizioni di legge, gli stipendi, i salari, le paghe, le mercedi, gli assegni, le gratificazioni, le pensioni, le indennità, i sussidi ed i compensi di qualsiasi specie che lo Stato, le province, i comuni, le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza e qualsiasi altro ente od istituto pubblico sottoposto a tutela, od anche a sola vigilanza dell’amministrazione pubblica, comprese le aziende autonome per i servizi pubblici municipalizzati, e le imprese concessionarie di un servizio pubblico di comunicazioni o di trasporto nonché le aziende private corrispondono ai loro impiegati, salariati e pensionati ed a qualunque altra persona, per effetto ed in conseguenza dell’opera prestata nei servizi da essi dipendenti“.
Viene in tal modo stabilita la regola generale circa la insequestrabilità, impignorabilità e incedibilità di stipendi, salari, pensioni ed altri emolumenti, anche se corrisposti da aziende private, salve le eccezioni stabilite dal medesimo Decreto o in altre disposizioni di legge.
Così, ai sensi del successivo art. 52 Decreto citato, se per un verso, viene prevista la possibilità per gli impiegati e i salariati di imprese private, con contratto di lavoro a tempo indeterminato e a tempo determinato, rispettivamente di “fare cessione di quote di stipendio o di salario non superiore al quinto per un periodo non superiore ai dieci anni” ovvero “per il periodo di tempo che al momento dell’operazione deve ancora trascorrere per la scadenza del contratto in essere” (art. 52, comma 2, primo capoverso), per altro verso, rispetto al trattamento di fine rapporto, per i medesimi soggetti, viene, di contro, esplicitamente esclusa l’operabilità di tale limite: alla cessione del trattamento di fine rapporto, infatti, non si applica il limite il quinto (art. 52, comma 2, secondo capoverso).
Ne consegue che mentre per la cessione di quote di stipendio o di salario, sia nel caso di lavoro a tempo indeterminato che a tempo determinato, è espressamente previsto che essa non sia superiore al quinto dell’importo, altrettanto espressamente è previsto che tale limite non operi per la cessione del trattamento di fine rapporto, fungendo essa da forma di garanzia per l’estinzione del debito contratto dal lavoratore. Sono, quindi da considerarsi valide le clausole, previste nei contratti di finanziamento, che prevedono, in caso di cessazione del servizio, la trattenuta dell’intero trattamento di fine rapporto a garanzia del credito prestato al dipendente.
Nella prassi, però, accade spesso che i contratti di cessione – predisposti unilateralmente dalle società finanziarie – prevedano clausole ulteriori per l’ipotesi di cessazione anticipata del rapporto di lavoro, richiedendo, ad esempio, che l’azienda versi all’istituto di credito, fino a capienza del debito, oltre al trattamento di fine rapporto, anche “tutte le somme che a qualsiasi titolo e sotto qualsiasi denominazione” vengano corrisposte al lavoratore, nonché “ogni indennità comunque dovuta in conseguenza della fine del rapporto di lavoro” (si pensi ad es. all’indennità per ferie e permessi non goduti).
Tali clausole, tuttavia, ove stipulate successivamente al primo gennaio 2005 (ovvero dopo l’entrata in vigore delle modiche apportate al d.p.r. n. 180/1950 dalla legge Finanziaria per il 2005) devono ritenersi illegittime. Infatti, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, in costanza del contratto di finanziamento stipulato dal lavoratore, le somme che hanno natura retributiva (quale ad esempio, l’indennità sostitutiva del preavviso) sono da considerarsi pignorabili, sequestrabili e cedibili solo nei limiti del quinto alla stregua di quanto previsto dagli art. 2, 5, e 68 del d.p.r. n. 180/1950. Diversamente deve dirsi per le somme corrisposte alla cessazione del rapporto che, invece, hanno natura indennitaria/risarcitoria (ad esempio l’indennità sostituiva delle ferie o dei permessi non goduti): in tal caso si applicano i principi di insequestrabilità, impignorabilità, incedibilità – previsti in via generale dall’art. 1 del d.p.r. citato – per tutte le “indennità, sussidi e compensi di qualsiasi specie” corrisposti ai lavoratori “per effetto ed in conseguenza dell’opera prestata”.