Con la sentenza allegata, finalmente la Cassazione si misura con l’onere della prova in materia di discriminazione sul lavoro, in questo caso nei confronti di una madre che non aveva visto convertito il rapporto di apprendistato.
Come tutti sanno, la discriminazione è assai difficile da provare, visto che si fonda su comportamenti che difficilmente trovano consacrazione in un scritto o comseguono ad intenti dichiarati.
Per questo motivo, la normativa sul tema (mutuata dalle direttive UE) consente l’accesso alla prova presuntiva, operata persino sulla base del dato statistico.
La Corte nel caso di specie ha ribadito il concetto che l’allentamento dell’onere della prova a carico dell’attore non determina alcuna inversione, per cui è sempre il lavoratore a dover dimostrare di essere stato discriminato.
Nel caso di specie, risultando – per ragioni processuali – precluso l’esame del criterio di discriminazione dato dalla maternità, era rimasto “solo” quello del genere.
Poiché il Giudice di merito, esaminata la prova statistica, aveva concluso che erano stati stabilizzati sia apprendisti uomini che donne, la Corte ha concluso per la mancanza di prova della discriminazione.
Al di là del fatto che non si sia potuto (per motivi tecnici, come si è anticipato) sottoporre a verifica di legittimità la censura relativa al fatto che le donne assunte non erano madri, a parere di chi scrive la Corte di Cassazione ha perduto una occasione importante.
In effetti, il lavoratore non può conoscere la condizione personale di tutti i suoi colleghi, per cui in base al criterio della vicinanza dell’onere della prova dovrebbe essere il datore di lavoro ad illustrare i dati di fatto sulla base dei quali ha operato le sue scelte.
Se risultasse (ad esempio) che delle donne apprendiste siano state assunte a tempo indeterminato solo quelle che non erano madri, la prova statistica (rispetto a quel singolo fattore di discriminazione) è bella che fornita.
Probabilmente nel caso di specie è sembrato sufficiente che l’azienda abbia offerto possibilità di lavoro stabile sia ad uomini che a donne per pronunciarsi negativamente sull’unica questione ammessa che è quella della discriminazione per genere.
Tuttavia, se davvero le sole donne assunte non fossero madri e quelle lasciate a casa si, allora ci si troverebbe davanti ad una colossale ingiustizia, dinanzi alla quale l’applicazione meccanica della norma non risponde alla sua ratio.
Avv. Sandro Campilongo