La fideiussione contenuta e “annegata” nell’informativa privacy è annullabile per dolo (Cass. Civ. Ord. 34426/2022)

La fideiussione contenuta e “annegata” nell’informativa privacy è annullabile per dolo (Cass. Civ. Ord. 34426/2022)

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Costituisce un comportamento contrario a buona fede e rilevante ai fini dell’interpretazione del contratto e dell’eventuale annullamento per dolo ex art. 1439 c.c. l’aver collocato la fideiussione all’interno del documento relativo all’informativa sul trattamento dei dati personali, senza averne dato adeguata evidenza al garante ed, anzi, avendola volutamente “annegata” nel testo predisposto per altri fini.

Il Fatto: un avvocato “nasconde” nel testo dell’informativa privacy una fideiussione personale, facendola sottoscrivere all’amministratore della società sua cliente insieme al consenso per il trattamento dei dati

Un avvocato otteneva un decreto ingiuntivo nei confronti dell’amministratore di una società (poi fallita) per la quale aveva gestito numerosi conteziosi, assumendo che questi si fosse costituito fideiussore della società per i compensi relativi ai giudizi incardinati.

La società proponeva opposizione innanzi al Tribunale di Bolzano rilevando che la fideiussione era contenuta all’interno dell’informativa relativa al trattamento dei dati personali che il professionista aveva predisposto e fatto sottoscrivere al “fideiussore” anche per il rilascio del consenso al trattamento dei dati personali.

Di conseguenza, a quanto è dato capire dalla lettura dell’ordinanza in commento, veniva chiesto al Tribunale la revoca del decreto ingiuntivo e l’annullamento della fidesiussione per dolo dell’avvocato e/o vizio del consenso.

Il Tribunale accoglieva l’opposizione a decreto ingiuntivo, ma la Corte d’Appello di Trento, in accoglimento del gravame interposto dall’avvocato avvoglieva parzialmente la domanda dal medesimo in origine monitoriamente azionata per l’attività spiegata – nella sua qualità di avvocato – in favore della società -, giusta “obbligo personale” da quest’ultimo assunto mediante dichiarazioni d’impegno, predisposte dall’avvocato nell’informativa e consenso al trattamento dei dati.

I motivi di ricorso in Cassazione: la fideiussione avrebbe dovuto essere annullata per vizi del consenso ed, in particolare, per dolo.

Pertanto, il fideiussore proponeva ricorso in Cassazione, affidato a 4 motivi.

In particolare, “Con il 2 motivo denunzia “violazione e falsa applicazione” degli artt. 1439 e 2729 c.c., art. 115 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Con il 3 motivo denunzia “violazione e falsa applicazione” degli artt. 1362, 1366 e 1937 c.c., D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 13 e 19 in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Con il 4 motivo denunzia “violazione e falsa applicazione” degli artt. 1272, 1371, 1439, 1938 e 2729 c.c., art. 115 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3“.

La Corte ricostruisce e sintetizza il contenuto dei motivi di ricorso come segue: “Si duole che la corte di merito abbia “escluso che l’impegno fosse suscettibile di annullamento per vizi del consenso”, erroneamente ritenendo “prive di rilevanza, ai fini della valutazione della sussistenza di dolo dell’avv. B.B., sia la circostanza che vi fosse discrasia tra le date di presunta sottoscrizione di talune delle Informative Privacy e i riferimenti normativi al loro interno contenuti, sia l’inserimento dell’impegno di garanzia all’interno dell’informativa privacy, ancorchè non fosse dotata di autonoma riconoscibilità tale da consentire al sottoscrittore di avvedersi con certezza della sua presenza in un documento a tutt’altro fine preordinato”.

Lamenta che erroneamente la corte di merito ha ritenuto non costituire le modalità di formazione dei documenti in questione “indice di comportamento doloso, perchè reticente ed omissivo”, e in ogni caso “violativo… del dovere generale di buona fede” in quanto idoneo a “generare… la (erronea) convinzione di rilasciare un consenso, e non già di sottoscrivere un contratto”, essendo egli stato “tratto in inganno” dalla convocazione del “proprio difensore di fiducia per sottoscrivere un consenso privacy (atto unilaterale) e non già un contratto (di fideiussione)”, a fortiori in quanto già in precedenza era stato “convocato dall’avv. B.B. per sottoscrivere un documento di impegno personale a garanzia del pagamento dei compensi del difensore per l’attività svolta nell’interesse della società di capitali” e aveva opposto “rifiuto, invitando (come in effetti poi avvenuto) l’avv. B.B. ad insinuarsi al passivo fallimentare della società (Omissis) Srl per ottenere il pagamento, in sede concorsuale, dei compensi maturati per l’attività professionale svolta in vantaggio della società”.

Si duole non essersi dalla corte di merito considerato che “è stato indotto a ritenere di apporre la propria sottoscrizione sui moduli di consenso al trattamento dati personali sempre e solo in nome e per conto della società (Omissis) Srl , per conto della quale era convinto di autorizzare esclusivamente il trattamento dei dati”.

Lamenta che erroneamente la corte di merito ha “escluso il dolo determinante sulla base di considerazioni che non trovano riscontro in fatti accertati”.

Si duole che il “contratto così “annegato” all’interno di un testo avente diverse sembianze e finalità” sia stato dalla corte di merito interpretato senza riguardarlo alla stregua del criterio di buona fede ex art. 1336 c.c., e senza in particolare “interrogarsi in merito alla chiarezza o meno del linguaggio e delle singole parole utilizzate… in un contesto preordinato ad accertare se la condotta di un contraente abbia avuto efficienza causale nell’induzione in errore dell’altro, condizionandone la volontà negoziale ai sensi dell’art. 1439 c.c.”, nè “stabilire se sia verosimile che… avesse contezza o fosse stato posto in condizione di cogliere il contenuto di ciò che il proprio difensore di fiducia proponeva in sottoscrizione”.

Lamenta che la corte di merito ha altresì “del tutto omesso di indagare in ordine alla esistenza, nel caso di specie, della volontà espressa di prestare fideiussione, come invece richiesto dall’art. 1937 c.c.”.

Si duole che, dopo aver considerato “criticabile” il “comportamento dell’avv. …., avvalsosi di diciotto documenti “Informativa e consenso sui dati personali ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 13… da lui unilateralmente predisposti, contenenti le dichiarazioni dell’impegno personale di A.A., estranee al fine indicato nel titolo, non poste in alcun modo in evidenza”, la corte di appello non abbia accertato “se vi fosse o meno espressa volontà di prestare fideiussione”, sicchè “da una parte, stigmatizza il comportamento dell’esercente la professione forense per difetto di tra Spa renza e di chiarezza, dall’altra, non coglie l’efficacia causale di tale difetto di chiarezza nell’alterazione del processo volitivo del A.A.”, laddove secondo quanto affermato dalla S.C. il “limite” posto all’art. 1937 c.c. “all’ampia libertà di forma consentita al prestatore della garanzia personale nel manifestare il proprio intendimento di obbligarsi in qualità di fideiussore è dato dalla non equivocità e dalla oggettività di manifestazione di volontà”.

Lamenta non essersi dalla corte di merito tenuto conto, da un canto, che “anche in ossequio al principio di legittimo affidamento, la scelta di una certa denominazione – nella specie “informativa” sul trattamento dei dati personali – tanto più perchè espressa da un legale, legittima il cliente medio ad attendersi che vi sia corrispondenza tra la denominazione ed il contenuto del documento”; per altro verso, che il “titolo del documento lasciava intendere che si trattava di una informativa, da fornire obbligatoriamente agli interessati anche nella vigenza del D.Lgs. n. 196 del 2003, su come sarebbero stati trattati i dati personali, da chi e per quali finalità”, sicchè “se sottoscrizione vi è stata… il giudice dell’appello non ha correttamente applicato le regole di cui al combinato disposto del D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 13 e 23 rilevanti ratione temporis”, giacchè avrebbe dovuto ritenere non prestato il consenso espresso “se si assume per vera la premessa fatta propria dalla Corte, ovvero che la sottoscrizione avrebbe avuto effetto di appropriazione dei contenuti dell’impegno fideiussorio, con conseguente illecito trattamento dei dati personali”, in quanto “nessun elemento, nè la denominazione “Informativa”, nè le prime righe, ma neppure le ultime, avrebbero consentito di percepire con nitore che, all’interno del documento, fosse stata inserita, senza neppure porla in lieve evidenza, la discussa clausola”, dovendo pertanto escludersi “che vi fosse consapevolezza in capo al A.A., della natura contrattuale. dell’informativa sul trattamento dei dati personali”.

Si duole che la corte di merito non abbia considerato che “tale illegittimo modus sia stato artatamente organizzato al solo fine di ottenere la sottoscrizione dell’impegno” contro la volontà del firmatario, come dallo stesso immediatamente eccepito”, e non potersi ritenere “che un impegno fideiussorio di cotanta portata possa essere legittimamente riversato in una dichiarazione generica di nemmeno… due righe, amalgamata in un'”informativa” ordinaria, unilaterale e… senza alcun richiamo specifico o doppia sottoscrizione e senza indicazione di importi massimi pretendibili”.

I motivi della decisione: seppure nei limiti del sindacato di legittimità, nel caso di specie la Corte d’Appello ha errato nell’applicare i criteri di interpretazione dei contratti, che avrebbero dovuto portare a valorizzare il vizio del consenso

La motivzione della decisione è di estremo interesse, non solo per le conclusioni alle quali approda, ma anche per il percorso logico argomentativo di supporto, con ampi richiami di precedenti.

In primo luogo, la Corte si sofferma sull’interpretazione letterale del contratto, definendone una nozione molto ampia, poiché viene valorizzato il senso letterale delle parole con riferimento all’intero testo contrattuale e non a singole parti di esso.

Atteso che l’interpretazione del contratto (nonchè giusta il combinato disposto di cui agli artt. 1324 e 1362 c.c. ss. degli atti unilaterali: v., Cass., 19/3/2018, n. 6675; Cass., 6/5/2015, n. 9006), riservata al giudice del merito, è in sede di legittimità censurabile solo per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale o per vizio di motivazione (v. Cass., 22/10/2014, n. 22343; Cass., 21/4/2005, n. 8296), il sindacato di legittimità potendo avere ad oggetto non già la ricostruzione della volontà delle parti bensì solamente l’individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere i compiti a lui riservati, al fine di verificare se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto (v. Cass., 20/10/2021, n. 28996; Cass., 12/5/2020, n. 8810; Cass., 22/10/2014, n. 22343; Cass., 29/7/2004, n. 14495), va anzitutto osservato come (pur non mancando qualche pronunzia di segno diverso: v., Cass., 10/10/2003, n. 15100; Cass., 23/12/1993, n. 12758) risponda ad orientamento consolidato che, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti il primo e principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate, che va invero verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, le singole clausole dovendo essere considerate in correlazione tra loro procedendosi al relativo coordinamento ai sensi dell’art. 1363 c.c., giacchè per senso letterale delle parole va intesa tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (v. Cass., 28/8/2007, n. 828; Cass., 22/12/2005, n. 28479; 16/6/2003, n. 9626. E, da ultimo, Cass., 10/6/2020, n. 11092)“.

Dunque, anche utilizzando il criterio dell’interpretazione letterale sarebbe stato possibile pervenire ad una soluzione diversa da quella accolta dalla Corte d’Appello, se si fosse valorizzato il testo dell’intero documento e non solamente quello delle poche righe che contenevano (rectius: meglio dire nascondevano) la fideiussione.

Nel prosieguo della motivazione , la Corte valorizza il ruolo degli altri criteri interpretativi: comportamento delle parti dopo la conclusione del contratto, interpretazione funzionale, interpretazione secondo buona fede e correttezza, concludendo che anche alla luce di ciascuno dei predetti criteri la fideiussione era viziata e, dunque, aveva errato la Corte d’Appello a considerarla valida ed efficace.

Di seguito gli eloquenti passi della motivazione su questo aspetto: “Si è altresì sottolineato che nella ricerca della reale o effettiva volontà delle parti il criterio letterale deve essere invero necessariamente riguardato alla stregua degli ulteriori criteri legali d’interpretazione, e in particolare, oltre al comportamento delle parti anche dopo la conclusione del contratto (art. 1362 c.c., comma 2) (v., da ultimo, Cass., 30/8/2019, n. 21840), di quelli (quali primari criteri d’interpretazione soggettiva, e non già oggettiva, del contratto: v. Cass., 20/10/2021, n. 28996; Cass., 10/6/2020, n. 11092; Cass., 6/12/2018, n. 31574; Cass., 13/11/2018, n. 29016; Cass., 30/10/2018, n. 27444; Cass., 12/6/2018, n. 15186; Cass., 19/3/2018, n. 6675. V. altresì Cass., 23/10/2014, n. 22513; Cass., 27/6/2011, n. 14079; Cass., 23/5/2011, n. 11295; Cass., 19/5/2011, n. 10998; con riferimento agli atti unilaterali v. Cass., 6/5/2015, n. 9006) dell’interpretazione funzionale ex art. 1369 c.c. (che consente di accertare il significato dell’accordo in coerenza appunto con la relativa ragione pratica o causa concreta: cfr. Cass., 13/11/2018, n. 29016) e dell’interpretazione secondo buona fede o correttezza ex art. 1366 c.c. (che quale criterio d’interpretazione del contratto – fondato sull’esigenza definita in dottrina di “solidarietà contrattuale” – si specifica in particolare nel significato di lealtà, sostanziantesi nel non suscitare falsi affidamenti e non speculare su di essi, come pure nel non contestare ragionevoli affidamenti comunque ingenerati nella controparte (v. Cass., 6/5/2015, n. 9006; Cass., 23/10/2014, n. 22513; Cass., 25/5/2007, n. 12235; Cass., 20/5/2004, n. 9628), non consentendo di dare ingresso ad interpretazioni cavillose delle espressioni letterali contenute nelle clausole contrattuali, non rispondenti alle intese raggiunte (v. Cass., 23/5/2011, n. 11295) e deponenti per un significato in contrasto con la ragione pratica o causa concreta dell’accordo negoziale (cfr. Cass., 23/5/2011, n. 11295; e, da ultimo, Cass., Sez. Un., 8/3/2019, n. 6882))“.

La Corte valorizza anche l’importanza di combinare gli esiti dei vari criteri ermeneutici, al fine di giungere alla ricostruzione della reale volontà delle parti.

Sebbene centrale nella ricerca della reale volontà delle parti, l’elemento letterale deve essere pertanto considerato non già isolatamente ma in correlazione con gli altri criteri ermeneutici, e primieramente quello funzionale, in coerenza cioè con gli interessi che le parti hanno specificamente inteso tutelare (causa concreta) mediante la stipulazione (v. Cass., 12/11/2019, n. 11092; Cass., 6/7/2018, n. 17718; Cass., 19/3/2018, n. 6675; Cass., 22/11/2016, n. 23701), con la quale convenzionalmente determinano la disciplina accettata come vincolante (art. 1372 c.c.) del loro rapporto contrattuale (cfr. Cass., Sez. Un., 8/3/2019, n. 6882; Cass., 6/7/2018, n. 17718).

A tale stregua, l’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza ex art. 1366 c.c. non consente, quale criterio d’interpretazione del contratto, di dare ingresso ad interpretazioni cavillose delle espressioni letterali contenute nelle clausole contrattuali, non rispondenti alle intese raggiunte (v. Cass., 23/5/2011, n. 11295) e deponenti per un significato in contrasto con la ragione pratica o causa concreta dell’accordo negoziale (cfr., con riferimento alla causa concreta del contratto autonomo di garanzia, Cass., Sez. Un., 18/2/2010, n. 3947)“.

Dopo aver posto le premesse sopra riportare, la Suprema Corte esamina il caso di specie e l’iter argomentativo seguito dalla Corte d’Appello, evidenziandone la fragilità e la non aderenza ai criteri interpretativi così ricostruiti.

Orbene, la corte di merito è nel caso pervenuta ad un’interpretazione del negozio de quo in termini non consentanei con i suindicati principi.

E’ rimasto nel giudizio di merito accertato che l’odierno controricorrente ha svolto, nella sua qualità di avvocato, attività professionale nell’interesse della società (Omissis) Srl su incarico del legale rappresentante, odierno ricorrente.

Il compenso al riguardo richiesto risulta da quest’ultimo indicato in “diciotto avvisi di parcella, tutti in data 08.07.2013”.

L’odierno ricorrente deduce al riguardo che al relativo pagamento controparte si è obbligata “in proprio” giusta “18 dichiarazioni” intitolate “Informativa e consenso sui dati personali ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 13”.

Nell’impugnata sentenza la corte di merito ha confermato la qualificazione operata dal giudice di prime cure dell'”obbligo assunto in proprio dal geom. …….. di pagare quanto spettante all’avv. …….. per l’attività giudiziaria svolta in favore dell’Impresa” come di “natura fideiussoria”, nella specie ritenuto validamente assunto per essere il relativo importo massimo “determinabile” mediante “ricorso ale tariffe professionali oppure alla liquidazione giudiziale”.

Orbene, la corte di merito ha nell’impugnata sentenza disatteso i sopra richiamati principi.

In particolare là dove, nel riformare la sentenza del giudice di prime cure, ha ravvisato l’infondatezza dei lamentati “raggiri” asseritamente posti in essere dall’odierno controricorrente, senza i quali l’odierno ricorrente deduce che “non avrebbe firmato le dichiarazioni”, argomentando dal rilievo in base al quale “ben potrebbe essere che… il geom. …… avesse effettivamente voluto, nelle cause… in questione, garantire personalmente l’obbligo della società da lui rappresentata di pagamento del compenso spettante all’avv. …….”.

Ancora, là dove, dopo aver premesso che “pur apparendo criticabile l’operato dell’avv. …… che, nel predisporre le scritture in questione intitolate “Informativa e consenso sui dati personali ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 13” aveva, nella parte contenente il consenso di ……… reso nella sua veste di “legale rappresentante dell'(Omissis) Srl “, inserito, dopo le prime sei righe attinenti effettivamente al consenso sul trattamento dei dati della società da lui rappresentata, nelle successive righe 7 e 8 l’impegno già citato assunto da …….. “in proprio di corrispondere personalmente all’avv. …….. (il cui operato viene sin d’ora ratificato), rispondendone con il mio patrimonio, il compenso dovutogli per l’attività professionale prestata in tale contenzione”, seguite da ulteriori quattro righe, nuovamente vertenti sul consenso al trattamento dei dati societari, senza evidenziare in alcun modo la presenza dell’elemento del tutto estraneo a quanto dal titolo del documento ci si poteva immaginare, di per sè la dichiarazione firmata dal(V)opponente/appellante”, è pervenuta a ritenere non avere le suindicate scritture “contenuto illegittimo, nè nella parte di consenso al trattamento dei dati societari, nè in quella attinente alla dichiarazione di personale impegno al pagamento dei compensi del legale maturandi per la difesa della (Omissis) Srl nelle controversie di volta in volta bene individuate”.

Atteso che il più sopra riportato assunto utilizzato per escludere l’applicabilità nella specie dell’invocato art. 1439 c.c. si appalesa invero non assurgere a ragionato argomento idoneo a fondare una logica e congrua motivazione bensì integrare una meramente apodittica e arbitraria supposizione o congettura della corte di merito, vale per altro verso osservare che anche la ravvisata validità della suddetta “dichiarazione” in termini di “personale impegno” ritenuto dall’odierno controricorrente assunto “in proprio” al “pagamento dei compensi del legale maturandi per la difesa della (Omissis) Srl nelle controversie di volta in volta bene individuate” emerge integrare un’affermazione del tutto immotivata avuto in particolare riguardo al lamentato relativo “annegamento” “all’interno di un testo avente diverse sembianze e finalità”, in contrasto in particolare con le esigenze di chiarezza e comprensibilità idonee a consentire la inequivoca manifestazione di volontà richiesta per la prestazione di fideiussione ex art. 1937 c.c. (v. Cass., 24/2/2016, n. 3628; Cass., 2/4/2009, n. 8005; Cass., 30/10/2008, n. 26064) e di “solidarietà contrattuale” che si esprime nell’obbligo di buona fede o correttezza, intesa nel suo particolare significato di lealtà, sostanziantesi nel non suscitare falsi affidamenti e non speculare su di essi, come pure nel non contestare ragionevoli affidamenti comunque ingenerati nella controparte, non consentendo di dare ingresso ad interpretazioni cavillose delle espressioni letterali contenute nelle clausole contrattuali, non rispondenti alle intese raggiunte e deponenti per un significato in contrasto con la ragione pratica o causa concreta dell’accordo negoziale.

Vale al riguardo ulteriormente osservare come la stessa corte di merito nell’impugnata sentenza stigmatizzi il relativo “nascondimento” all’interno di “scritture in questione intitolate “Informativa e consenso sui dati personali ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 13″… nella parte contenente il consenso di ………. reso nella sua veste di “legale rappresentante dell'(Omissis) Srl “”, e pertanto “vertenti sul consenso al trattamento dei dati societari”, senza che risulti nemmeno “in alcun modo” evidenziata “la presenza dell’elemento del tutto estraneo a quanto dal titolo del documento ci si poteva immaginare, di per sè la dichiarazione firmata dall’opponente/appellante”, per poi del tutto illogicamente ed immotivatamente concludere per la relativa validità.

Atteso che come questa Corte ha già avuto modo di porre in rilievo allorquando la dichiarazione di prestare fideiussione sia inserita in un atto posto in essere allo scopo della conclusione di un diverso negozio, per stabilire se la dichiarazione integri anche l’assunzione delle obbligazioni conseguenti alla fideiussione è necessario valutare se essa possa essere interpretata solo in questo modo, o se essa piuttosto non abbia un contenuto congruente con il negozio per cui l’atto è stato formato ed esaurisca in esso il suo significato (v. Cass., 30/10/2008, n. 26064; Cass., 24/06/2004, n. 11727. E già Cass., 16/1/1976, n. 150), nulla sul punto risultando dalla corte di merito al riguardo affermato, alcun pregio può infatti nella specie riconoscersi al viceversa evocato principio di autoresponsabilità (per non risultare essere stato “al geom. A.A…. impedito di legger i documenti, prima di apporvi la firma”), atteso che (anche al di là dei principi di tutela dell’aderente ex art. 1341 e 1342 c.c.) l’obbligo di buona fede e correttezza, nei sopra richiamati significato e funzione, trova indubitabilmente applicazione pure in tale ipotesi.

La corte di merito è invero pervenuta nell’impugnata sentenza alle raggiunte erronee conclusioni limitandosi invero a un’interpretazione meramente atomistica e formalistica dichiarazione de qua, non facendosi carico di verificare la portata delle “righe 7 e 8” delle scritture de quibus, omettendo di riguardarne il tenore letterale alla stregua dei primari criteri di interpretazione soggettiva dell’interpretazione globale (art. 1362 c.c., comma 2), sistematica (art. 1363 c.c.), funzionale (art. 1369 c.c.) e secondo buona fede (art. 1366 c.c.), avuto specificamente e primieramente riguardo alle esigenze che con la relativa stipulazione le parti hanno inteso in concreto salvaguardare, e cioè della ragione pratica o causa concreta del negozio de quo (cfr. Cass., 19/2/2021, n. 4571; Cass., 30/8/2019, n. 21840; Cass., Sez. Un., 8/3/2019, n. 6882).

Avv. Emanuele Nati

Responsabile Protezione Dati
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