Si segnala la sentenza n. 1762 resa dalla Corte d’Appello di Roma il 9 marzo 2021 sul delicatissimo tema dell’assegno di mantenimento spettante al coniuge economicamente più debole nel periodo della separazione che precede il divorzio.
Nel caso in esame, il marito ha impugnato la sentenza del Tribunale di Roma che lo ha condannato a corrispondere alla moglie per il periodo di separazione un assegno di mantenimento di 3.500 euro, ritenendo non esserle dovuto per avere la stessa, oltre al godimento della lussuosa casa familiare, a disposizione adeguati redditi che le garantirebbero una indipendenza economica.
La tesi difensiva dei legali dell’appellante è stata respinta in toto dai giudici del gravame, i quali hanno preliminarmente sottolineato come, rispetto all’assegno divorzile, per la cui determinazione è ormai superato il criterio di dover mantenere il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, la determinazione dell’assegno di separazione postula uno stato di fatto e di diritto totalmente differente.
Come più volte ribadito dai Giudici di Piazza Cavour, nella separazione, sul coniuge più abbiente permane il dovere di garantire all’altro il medesimo tenore di vita tenuto prima della divisione.
Il che non contraddice affatto il principio di “autosufficienza” preso a parametro per il riconoscimento dell’assegno divorzile che ha archiviato quello legato al tenore di vita (Cass. n. 12196/2017 e 16809/2019).
Ne consegue che fino alla pronuncia giudiziale che pone fine al vincolo coniugale, permane tra i coniugi ancora il dovere di assistenza materiale di cui all’art. 143 cod. civ. II comma, restando sospeso solo l’obbligo personale di fedeltà, convivenza e collaborazione.
Nella vicenda giudiziale sottoposta al suo giudizio, la Corte d’Appello capitolina ha evidenziato come già nella ordinanza presidenziale il Tribunale aveva dato atto dell’elevato tenore di vita matrimoniale (attico di 500 mq nel centro di Roma, villa a Fregene, collaboratori domestici, ingenti spese mensili ben superiori rispetto ai redditi dichiarati, etc.), che è andato ad aggiungersi nel corso del giudizio ad una serie di elementi, tra cui il reddito della moglie di “appena” 2.000 euro mensili, a fronte di un finanziamento da parte del marito per le sue società partecipate ed amministrate per 1.700.000 euro in appena un quadriennio, oltre alla sussistenza di conti correnti presso lo IOR, che, come è noto, non sono tracciabili.
Il tutto aggravato dal comportamento ritenuto reticente del marito che avrebbe occultato beni e maggiori sue disponibilità economiche, disattendendo anche le richieste del CTU, nominato nel corso dell’istruttoria per procedere alla stima dei flussi di denaro relative alle società, di depositare la documentazione fiscale e contabile, tanto che la sentenza di separazione è stata inoltrata alla Guardia di Finanza ai sensi dell’art. 36 DPR 600/1973.
La Corte d’Appello ha, dunque, ritenuto corretta la decisione del Tribunale di Roma, secondo cui la moglie non possa con le sue sole disponibilità economiche mantenere lo stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio e che ciò giustifica l’imposizione al marito dell’assegno di mantenimento equamente determinato nella misura di 3.500 euro.
Avv. Francesca Muscarello