Come spesso accade, la giurisprudenza precede la politica sul piano dei diritti.
In questo caso specifico, la Cassazione ha rigettato un provvedimento di conferma di espulsione di stranieri (albanesi) privi di permesso di soggiorno in considerazione dei danni che ciò avrebbe procurato ai figli minori della coppia (di sei anni e mezzo e quattro), nati e sempre vissuti in Italia.
Il problema ha una connotazione più generale: i ragazzi sempre vissuti in Italia non hanno rapporti con la terra natia dei loro genitori, nella quale magari non sono mai stati e della quale non parlano la lingua.
Il principio dettato dalla Cassazione riposa sulla presunzione di vulnerabilità dei minori nati in Italia e inseriti nel tessuto socio territoriale e nei percorsi scolastici, che è ritenuto inversamente proporzionale all’età nel caso di minori che non vanno a scuola, direttamente proporzionale all’età per minori in età scolare.
In altri termini: il danno è maggiore per un bambino in un anno piuttosto che per uno di cinque, mentre il rapporto si inverte quando i bambini vanno a scuola, per cui il danno è maggiore per un bambino di dieci che per uno di sei anni.
La Cassazione ha così imposto al Giudice di merito un riesame della situazione, tenendo presente che il danno si presume e dunque non devono essere i ricorrenti a dimostrarlo.
Al di là del caso specifico che risulta inevitabilmente inquinato dalla considerazione che i genitori sono privi del permesso di soggiorno ed in quanto tali non meritevoli di autonoma tutela, ci si chiede: quando la politica si porrà il problema dei bambini nati e vissuti in Italia?
Essi non sono clandestini in Italia, che considerano casa loro non meno di quanto non lo facciano i nostri figli. Almeno sotto questo profilo, la legge sulla cittadinanza deve essere cambiata, in quanto non fotografa più la realtà sociale che ci troviamo a vivere, e meno ancora quella delle nuove generazioni.
Possibile che ancora riteniamo che la cittadinanza si trasmetta col DNA, e che cittadini italiani possano essere i discendenti dei nostri emigrati (che magari non parlano l’italiano o non sono mai stati in Italia) mentre questo diritto viene negato ai compagni di scuola dei nostri figli, che a volte – essendo molto più motivati – sono anche gli studenti più brillanti?
Avv. Sandro Campilongo